Tre ore di macchina per le strade serpeggianti del Rif e una breve sosta in un bar marocchino, con all’interno solo uomini, dove il nostro driver, Youssef, ci ordina un caffè. Sara ed io stiamo raggiungendo una cittadina arroccata nel verde e rigoglioso Marocco del nord, un’antica roccaforte diventata una meta imperdibile in un viaggio in questo paese.
Dopo un’ultima curva, ancora una salita e una discesa, ed eccola lì davanti ai nostri occhi: l’incantevole Chefchaouen.
Per tutta la prima metà del Novecento, Chefchaouen era considerata una temibile roccaforte di montagna a cui ebbero accesso pochi europei. Questa ostilità nacque secoli prima, quando Chefchaouen, costruita tra le vette dell’Atlante, era luogo di rifugio per ebrei e musulmani che fuggivano dalla Reconquista spagnola del XV secolo. Tribù locali e andalusi difesero la roccaforte per centinaia di anni, ostacolando l’accesso ai conquistatori, fino alla sconfitta contro i soldati spagnoli avvenuta negli anni Venti. Chefchaouen venne poi riconsegnata al Marocco solo negli anni Cinquanta.
Oggi Chefchaouen mantiene viva l’impronta andalusa e per le strade risuona un animo multietnico sacro, uno spirito autentico e pacifico, distinguendosi nitidamente dal caos delle città imperiali, come Fès o Marrakech.
Chefchaouen è considerata la “perla blu del Marocco”
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Chefchaouen sembra un quadro pastoso raffigurante il cielo, incorniciato dalle catene montuose del Nord.
Di blu sono dipinte le mura delle case, i viottoli irregolari, le porte in legno intagliato e le scalinate che, in modo labirintico, accompagnano nelle piccole piazze. Le sfumature spaziano dall’intenso cobalto al tenue azzurrino, un colore tradizionale per gli ebrei per richiamare il Paradiso.
A distanza di decenni, il blu di Chefchaouen è oggi un simbolo anche di marketing, un vero e proprio richiamo fotografico per viaggiatori da ogni dove decisi a farsi assorbire dalle mille sfumature della perla del Marocco – non a caso, anche Steve McCurry è stato qui.
Perdersi a Chefchaouen è piacevolmente d’obbligo ed è incredibilmente facile.
Youssef lascia me e Sara alla porta d’ingresso occidentale della Medina, Bab el-Ain, dicendoci che ci saremmo rivisti lì dopo quattro ore. Ovviamente, per prima cosa, un brivido ci assale dubitando della nostra capacità di orientamento, soprattutto dopo esserci perse nervosamente nella caotica Medina di Fès, ma è stato sufficiente supere quel varco per abbandonarci anche noi senza timore ai vicoli di Chefchaouen.
La Medina, la città vecchia, è un piccolo dedalo di strade blu che si snoda fino al cuore, la frizzante Place Outa Hamman. Questa piazza è circondata da piante di gelsi rigogliosi tra cui si alternano bar e ristoranti in cui poter riposare con una tajine, un cous-cous o una tazza di tè. In quella piazza, gli occhi vengono subito attratti dal minareto ottagonale della Grande Moschea che domina su tutta la Medina, e dall’imponente Kasbah dai richiami andalusi, un’antica fortezza – un po’ disadorna – che ospita il Musèe Ethnographique.
Il labirinto di vicoli, angoli e scalinate, è ricco di botteghe di artigianato dove comprare le tradizionali stoffe di lana a strisce – tipiche delle tuniche jellaba -, i manufatti in pelle, gli oggetti in ferro battuto o in legno di cedro. Nelle piazzette, bancarelle di arance e negozi di souvenir vendono polvere colorata, mostrando agli occhi quel lato “arcobaleno” della perla blu del Marocco.
Se non è un muro, è una porta in legno intarsiato a fare da protagonista. Dopo aver immortalato una lisca scalinata dalle mille sfumature, sarà un davanzale di fiori vivaci a catturare l’attenzione. Se non è un angolo con decori andalusi, è un gatto sornione che si adagia in un vicolo.
Il tempo a disposizione è volato in un susseguirsi di scatti, sorrisi, passi e saltelli. Percorrendo l’arteria principale, rue Lalla el Hora, dalla piazza principale io e Sara siamo tornate serenamente al punto di ritrovo, senza timori e felici di esserci perse per quattro indimenticabili ore.
A volte ti sembrerà di attraversare un quadro dalle pennellate intense e tortuose.
In altri momenti, sarà come passeggiare nei vicoli bianchi e blu delle Cicladi, interrotti dai nomi delle strade “calle…” che richiamano l’influenza andalusa.
E poi, un profumo arabeggiante o una parola in dialetto marocchino con forte cadenze spagnola, ti riporterà alla realtà.
Ti renderai conto di esserti pers* in un ammaliante Marocco.
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Abbiamo raggiunto Chefchaouen da Fès in tre ore di macchina (sono circa 220 km) con un autista privato (80 euro a testa).
Esiste anche un autobus molto più economico ma impiega quasi il doppio del tempo.
L’alternativa è un’auto a noleggio, ma noi abbiamo scelto il treno per muoverci tra le città principali.
Non temere di perderti per i vicoli della Medina, noi non abbiamo mai avuto sentore di pericolo. Innanzitutto, la Medina è piccina e le strade secondarie riportano sempre a quelle principali. In secondo luogo, le persone incontrate sono state tutte gentili e poco invadenti, e per noi è stata una ventata di tranquillità dopo due giorni nella caotica Fés.
La piazza principale è costellata di bar e ristoranti, ma ogni vicolo accompagna su incroci o piazze minori dove spesso è presente un locale. Noi abbiamo provato un cous-cous delizioso a Restaurant Wiam, situato in una zona tranquilla a pochi metri dal centro della Medina.
Un grazie speciale a Sara, mia splendida cugina e compagna di avventure in questo paese da mille e una notte.
Una psicologa con la valigia sempre in mano.
Benvenuti nel blog di Psicologia del viaggio.
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