Parliamo insieme di delusione in viaggio, ti è mai successo?
A volte scopriamo che le nostre aspettative non rispecchiano la realtà, a volte succede che la nostra cultura interiorizzata non trovi un punto d’incontro con il luogo che ci ospita.
Ecco, parliamo di Sindrome di Parigi, il caso più estremo di come la delusione da viaggio possa far male.
Esistono città che pur non avendole mai viste dal vivo, ci sembrano familiari. Conosciamo le vie, le esperienze “da local”, storie ed avvenimenti. Tutto grazie ai film, alle pubblicità, ai libri. Pensa a Parigi o a New York o a Firenze. Sono città che potremmo definire mondiali da quanto sono famose.
Ricordo la prima volta a Parigi, la Ville Lumiére era come uscita dal film di Woody Allen, così romantica, eccelsa ed intellettuale, dove ho visitato i musei più rinomati a livello internazionale e passeggiato all’ombra della Tour Eiffel mano nella mano.
La puzza della metro, i clochard e la sporcizia, erano tutti in secondo piano – anche perché non è poi così diversa dalla mia città – Milano.
Eppure non sempre va così.
Ci sono persone nel Mondo, appartenenti a specifiche culture, che quando si recano a Parigi corrono il grave rischio di incorrere in una condizione psicologica simile all’attacco di panico, accompagnato da allucinazione e da una forte delusione.
Parlo della cultura asiatica, dei Giapponesi e dei Cinesi in particolare. Parlo di Sindrome di Parigi.
“Parigi! Maledetta e cara Parigi! Sirena sfrontata! È dunque proprio una verità che bisogna fuggirti come una furia o adorarti come una dea?”
Diceva Edmondo De Amicis in occasione dell’Esposizione Universale del 1878, dopo essersi fatto stregare a Montmartre e sulle rive della Senna, respirando l’atmosfera bohémienne assieme a Zola.
La Ville Lumière ha un fascino ineguagliabile decantato da scrittori, pubblicità e film internazionali che hanno diffuso e veicolato in tutto il mondo l’idea di una città unica, romantica, glamour e chic.
Ed è così che le persone, come Cinesi e Giapponesi, abituate a città caotiche e collettiviste – fondate sull’interdipendenza e il bene comune, e non sul singolo individuo – osservano una Parigi dove poter vivere una favola romantica, sorseggiando un caffè durante una conversazione intellettuale e passeggiando per gli Champs-Elysée con Chanel n’5 che evapora dai marciapiedi.
Quando arrivano a Parigi e mettono piede sui boulevard, si scontrano con la realtà: una città snob, sporca, scontrosa. I Giapponesi, in particolare, sono abituati ad avere strade immacolate – perché i rifiuti si buttano a casa propria – e ad interessarsi ossequiosamente all’altro, la cui opinione è fondamentale. Aggiungi la barriera linguistica, e la Sindrome è più che comprensibile, tanto che è possibile imbatterci in turisti con gli occhi a mandorla che freneticamente puliscono le strade della Ville Lumière.
Questa Sindrome può colpire chiunque, ma è stato il Professore Hiroaki Ota, negli anni ’70, ad identificare i primi casi di donne – mogli di illustri ambasciatori giapponesi – che tornavano in patria emotivamente devastate.
“La soluzione? Non tornate più a Parigi” Diceva il Professore Ota
La Sindrome di Parigi è la dimostrazione non solo del dolore che proviamo di fronte alle aspettative deluse, ma anche di come la cultura in cui viviamo influenza il nostro modo di vedere e di vivere il mondo che ci circonda – riflessioni sulle differenze culturali da non sottovalutare.
Parigi è per innamorati con la molletta sul naso?
Forse, eppure il suo fascino decantato dai grandi artisti resta per me impareggiabile.
Bon Voyage!
Una psicologa con la valigia sempre in mano.
Benvenuti nel blog di Psicologia del viaggio.
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