Il nostro viaggio in Myanmar (ex Birmania) inizia a Mandalay, la caotica e trafficata metropoli al centro del paese.
Ci siamo rimasti per 48 ore, giusto il tempo di immergerci in quel inconfondibile caos asiatico e vedere i dintorni di Mandalay che tanto sognavamo di esplorare.
Bentornata in Asia – mi sono detta
Con Mandalay è stato odio e amore a prima vista.
Dal bar sul tetto dell’hotel, potevamo vedere solo un concentrato di edifici in cemento grigiastro, cavi elettrici sospesi agli incroci, strade intrecciate e congestionate da ogni tipo di veicolo.
La prima impressione è stata spiacevole, una città fatta di smog e rumore assordante, priva di fascino, grigia e tinta solo da insegne luminose con scritte in birmano e cinese.
Eppure, una volta lasciato andare questo turbamento, Mandalay ci ha mostrato con fierezza la sua ricchezza culturale e spirituale, fatta di pagode e monasteri, ma anche di atelier artigianali e sale da the.
Mandalay fu l’ultima antica capitale birmana prima che venisse trasferita a Yangon. Oggi il passato è tangibile grazie ad una fedele ricostruzione del Palazzo Reale, dove siamo capitati un po’ per sbaglio, tra la ricerca di una sim per il telefono e un luogo per il pranzo.
Ma c’è un posto di cui ci siamo innamorati a Mandalay, un luogo in cui prendere le distanze da quella confusione, in cui bilanciare il grigiume e il caos con l’oro e la calma.
È Mandalay Hill, dove per la prima volta abbiamo camminato a piedi scalzi a contatto con il corpo e lo spirito birmano. Da vedere, esplorare e vivere rigorosamente al tramonto, quando la luce calda e avvolgente si riflette sugli specchietti delle colonne del tempio, regalando un’atmosfera quasi magica. Qui, turisti e monaci ridono, parlano e pregano insieme, connessi e uniti, lontani dal brusio e dall’invadenza della città.
Tornati in hotel la sera, siamo andati sul tetto con una birra locale in mano ad osservare ancora una volta Mandalay dall’alto. Le strade erano avvolte dal silenzio interrotto solo da flebili litanie, il nero dei profili degli edifici erano tinti dalle punte dorate delle stupa sparse per la città.
Una convivenza di caos e calma che fa subito Asia
Abbiamo prenotato nel nostro hotel un’auto privata per visitare i dintorni di Mandalay. Alle 8.00 del mattino, il nostro autista di fiducia era lì ad aspettarci.
Il suo nome era impronunciabile, quindi lo abbiamo soprannominato “S.”, un uomo minuto, premuroso e gentile, capace di comprendere, pur non conoscendo molto l’inglese, ogni nostra esigenza.
In questo viaggio, eravamo alla ricerca di contatto umano e di incontri, di commuoverci e farci stregare. Così S., orgoglioso della sua piccola auto chiamata “Mister Bean car”, si è messo alla guida per farci scoprire le meraviglie del suo paese nei dintorni di Mandalay.
A sud di Mandalay si sviluppa il quartiere degli orafi dove poter vedere gli artigiani al lavoro. I battitori dell’oro, le ricamatrici, i falegnami e i tessitori della seta erano tutti accomunati da una stupefacente destrezza e da grande umiltà, che quasi non siamo più abituati a vedere. Anche se i movimenti erano quasi ipnotici, era impossibile restare solo ad osservare.
E siamo andati via felici pieni di sacchetti in mano.
A metà mattinata, presso il Mahagandayon Monastery, inizia la tradizionale processione dei monaci per cingersi ai tavoli all’ora del pasto. Ero affascinata alla sola idea di poter vedere un luogo simile, anche se S. non voleva portarci.
E aveva ragione. Pensavo di trovare l’anima del paese, ma era difficile sentirla qui dove una fila silenziosa di monaci procede tra orde di turisti chiassosi desiderosi di immortalare un po’ di colore locale. Il parcheggio era pieno di pullman di visitatori da ogni dove.
Siamo stati poco, il tempo di farci raccontare da S. una tradizione locale: tra i 7 e i 20 anni, ogni birmano deve fare un periodo di noviziato in monastero per onorare la propria famiglia e dovrà poi tornare da adulto anche se decide di non prendere i voti. Anche S. lo ha fatto, è una tradizione che lo riempie di orgoglio e vedere il suo sguardo illuminarsi mentre ne parlava è stato un motivo valido per venire qui. L’unica cosa che non rimpiange, ammette, è la fame che provava.
I monaci sopportano con una pazienza ammirevole la calca di turisti ma sono anche mossi dall’intento di promuovere la conoscenza del Buddhismo adattandosi ai tempi moderni. Spesso con cellulare alla mano, la vicinanza ai turisti è un modo per rimanere connessi con il Mondo esterno ed è fonte di sostegno economico per le comunità religiose.
Non è solo un’attrazione turistica.
Tornati in macchina, S. decide di dirigersi a nord per raggiungere Mingun, un placido villaggio sulla riva del fiume Irrawaddy conosciuto per due siti straordinari.
Mingun Paya è l’edificio oggi visibile del progetto originario del 1790 voluto dal re Bodawpaya che desiderava costruire la pagoda più grande del mondo. Sfortunatamente, il sovrano morì un ventennio più tardi e i lavori si interruppero lasciando a metà la costruzione. Il grande terremoto del 1838 ha causato ulteriori cicatrici a questo sito, lasciando profonde fenditure che rendono la Mingun Paya assolutamente unica nel suo genere.
Percorrendo la strada sterrata, poco più avanti siamo giunti alla Hsinbuyume Paya, una pagoda di rara bellezza. Sette terrazze ondulate si rincorrono in cerchio in un’ascesa verso il cielo, ognuna di esse simboleggia una delle catene montuose dell’Universo Buddhista. Abbagliati da quel bianco, saremmo rimasti lì a girare, a salire e a scendere per quelle scalinate per ore, accompagnati da S. e da due ragazzi che si sono offerti di farci qualche fotografia. Erano davvero calati nella parte, con mazzi di fiori, ombrellini, pose e inquadrature da proporci.
Quante risate e che meraviglia.
Avvistiamo Sagaing da un ponte dove S. si ferma per farci guardare il panorama. Davanti a noi c’era una distesa di colline verdeggianti, punteggiate dal bianco e oro di oltre centinaia di stupa. Gli alberi che si piegano sul fiume danno il nome a Sagaing, antica capitale indipendente del regno Shan nel 1315.
La nostra visita è stata fugace ma resa indelebile dalla donazione fatta presso la Umin Thounzeh Pagoda in cui verrà inciso il nostro nome. Questo luogo è conosciuto per la sua terrazza colorata a mezzaluna che racchiude quarantacinque statue del Buddha, un tangibile arcobaleno.
Poco distante, la Pon Nya Shin Pagoda situata proprio sulla sommità della collina da cui ammirare una splendida vista su Sagaing. Il mito birmano racconta di un’attività sovraumana di Pon Nya, il ministro del sovrano, che, ispirato da una reliquia del Buddha, innalzò lo stupa in una notte.
Questo velo di misticismo è uno dei lati più affascinanti di questo paese che rende ogni luogo, e ogni rappresentazione del Buddha, sensazionale.
Il bisogno di pranzare si fa sentire nel primo pomeriggio così S. ci accompagna a mangiare in un luogo speciale a Inwa.
S. decide di offrirci il pranzo per ringraziarci nell’aver scelto lui e non un calesse per girovagare per questa piccola isola e così ci conduce a un paio di bancarelle improvvisate sul fiume. Ci ritroviamo seduti sul bagaglio della Mister Bean Car, con in mano pankecakes al peperoncino e dolci di banana e cocco caramellati, da gustare nel mezzo delle risaie fino a leccarsi le dita.
Uno dei pranzi più buoni, suggestivi e piacevoli di sempre.
Il giro continua fermandoci in ogni dove, tra i resti di stupa, campi agricoli e le rovine dell’antica capitale. Abbiamo osservato il lento stile di vita di questa zona ormai rurale, portatore di un passato splendore che vide Inwa capitale della Birmania per quattro volte nell’arco di cinque secoli.
Il Bagaya Kyaung, un monastero interamente in legno teak, è maestoso; il complesso del Daw Gyan è incantevole per le sue stupa in mattoni rossi all’ombra degli alberi; il monastero Maha Aungmye Bonzan è uno degli edifici meglio conservati che testimoniano l’antica architettura birmana; la torre pendente di Nanmyin è ciò che resta degli edifici voluti dal re Bagyidaw.
Inwa è un piccolo idillio, un luogo che racconta con delicatezza un antico e maestoso passato.
La penultima capitale antica è Amarapura il cui nome significa “città dell’immortalità”.
Era ormai tardo pomeriggio quando S., con l’intento di mantenere la sua promessa di farci vedere le meraviglie dei dintorni di Mandalay, si mette alla guida con sportività e tenacia. Attraversiamo una scorciatoia in mezzo alla foresta – tra le mie urla – e di corsa arriviamo qui, giusto in tempo per vedere un altro spettacolare tramonto birmano al U-Bein bridge.
U-Bein è il ponte pedonale in legno teak più lungo al mondo che attraversa il lago Taungthaman. E’ un via vai di persone, un incrocio di anime, che siamo rimasti ad osservare fino alla scomparsa del sole, fino a farci commuovere – e fino a farci circondare da moscerini.
Il nostro giro nei dintorni di Mandalay si conclude con uno spettacolo di marionette cenando con un zuppa birmana di lenticchie e una fresca birra locale.
All’indomani, siamo pronti per una nuova tappa.
Non potevamo avere inizio migliore per conoscere l’anima affascinante e spirituale di questo paese.
Abbiamo alloggiato presso il Royal Pearl Hotel, un alloggio essenziale, compreso di colazione, da cui abbiamo organizzato la maggior parte degli spostamenti i primi giorni del viaggio, tra cui i tour delle antiche capitali e lo spostamento su mezzo locale per raggiungere Bagan.
In hotel abbiamo prenotato l’auto privata per vedere i dintorni di Mandalay alla modica cifra di 15 euro a testa. Il nostro autista era fornito di bevande per dissetarci e di salviette umidificate per farci pulire i piedi ogni volta che dovevamo entrare scalzi in un luogo di culto.
L’ingresso nelle regioni delle antiche capitali richiede un ulteriore biglietto di circa 2 euro a testa.
Abbiamo anche prenotato in hotel il trasporto locale fino a Bagan a circa 5 euro a testa.
Nel traffico congestionato di Mandalay vi sconsiglio di girare a piedi e in bicicletta. Appoggiatevi a taxi e a tuk tuk che hanno prezzi irrisori e fatevi da loro consigliare.
Per non rimanere sconnessi dal resto del mondo, abbiamo comprato una sim per il telefono in un negozio poco distante dal nostro hotel, pagandola circa 8 euro per 10 giga. Avere un telefono funzionante permette di recuperare informazioni, orientarsi e comunicare tramite il traduttore qualora servisse.
Un ringraziamento speciale a Gabriele, mio compagno di vita e di viaggio, che ha condiviso con me questo viaggio meraviglioso.
Una psicologa con la valigia sempre in mano.
Benvenuti nel blog di Psicologia del viaggio.
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