“Ooohhhh”
Gridano i bambini.
Sono in Cina, su un volo interno che da Zhengzhou mi sta portando a Guilin. Lele ed io siamo gli unici occidentali, il chè significa essere “l’attrazione” dell’aereo. Dietro di noi, due bambini che stanno in piedi a guardarci, che ad ogni sobbalzo ci urlano nelle orecchie, che appena facciamo un movimento si abbassano per scrutarci dalle fessure dei sedili. Iniziamo a fare foto, e una volta “beccati”, i due bambini si appoggiano ai nostri schienali a guardarci e ad offrirci caramelle, felici di essere usciti allo scoperto.
Atterriamo e salutiamo i bambini, una macchina ci aspetta fuori dall’aeroporto per accompagnarci a 1100 metri di quota tra le montagne per raggiungere uno dei luoghi che più desideravamo vedere.
Il tragitto dura circa tre ore, un susseguirsi di curve a destra e a sinistra su una strada stretta percorsa da carretti, macchine e minibus, nascosta da una fitta boscaglia. Saliamo e saliamo verso la cima della montagna, l’aria è sempre più tiepida. Raggiungiamo l’ingresso di una grande vallata verde dove ci viene chiesto un pedaggio per entrare in una zona Patrimonio dell’Unesco e così capiamo di essere arrivati a destinazione.
Longji significa “schiena del Dragone”
La macchina ci lascia al parcheggio del villaggio Ping’an. Lì una signora con una gerla ci aspetta per accompagnarci all’hotel. La gerla servirebbe per portarci le valigie lungo la strada, ma io e Lele ci rifiutiamo di farle fare questo sforzo. Lei, inseguendoci lo stesso, fa diventare quel percorso una sorta di staffetta tra noi tre, con un continuo saltellare, superare, passare, riprendere fiato e ridere.
Nel camminare, ci imbattiamo in ristoranti a strapiombo sulle risaie, bancarelle di cibo, sciarpe di seta, minerali, statue di giada e tavoli ricoperti da cimeli antichi – alcuni tirati fuori dalle soffitte.
Ancora un’interminabile scalinata e, a fatica, arriviamo finalmente al nostro hotel in cima al paese, dove ad aspettarci il proprietario con delle ciabatte in una mano e del the verde nell’altra. Togliamo le scarpe, prendiamo la tazza calda e ci dirigiamo in terrazza. Siamo in una sorta di romantica ed elegante baita in legno, arredata con mobili ricercati e decorata da immagini d’epoca che ci regala una vista straordinaria sui terrazzamenti verdi.
Una meraviglia. “Ohhhh” esclamo io.
Rimesse le scarpe iniziamo ad esplorare questo piccolo feudo.
Ping’an è un suggestivo villaggio in legno arroccato sulle montagne della regione autonoma Guangxi, in cui vivono le minoranze etniche Zhuang e Yao da circa sei secoli.
Nel camminare per la stradina principale in cemento grezzo che costeggia tutto il villaggio fino alle risaie, incontriamo anatre, pulcini, cani, galli e cavallette giganti.
Tra una casa e l’altra, si intravedono le persone indaffarate nelle loro attività quotidiane.
Ci avviciniamo a due donne che ci mostrano come estraggono le larve da un una porzione di alveare. Lì, una bambina che osserva per imparare, a tratti schifata e poi divertita nel maneggiare quegli insetti.
Due anziani signori, la cui postura è segnata da una vita nei campi, ci salutano con un fare garbato e colti dalla nostra curiosità ci fanno cenno di avvicinarci. Stanno essiccando peperoncino e chiodi di garofano.
Restiamo incantati nel guardarci attorno, uno sfondo verde su cui si sviluppano case in legno addobbate da lanterne rosse.
Iniziamo a salire sulla schiena del Dragone, il villaggio si allontana e una volta in cima il panorama è da mozzare il fiato.
Queste terrazze sono state tutte costruite a mano e sempre a mano vengono curate da generazioni, con amore, precisione ed eleganza. Passeggiamo per i sentieri, tra piante di riso regolarmente tagliate, un po’ di fango e tanta meraviglia nel guardare quelle sinuose strisce verdi snodarsi a perdita d’occhio nell’orizzonte.
Tra una foto e un sospiro, ci rendiamo conto di come la luce del sole stia diventando velocemente sempre più flebile e lontana, tanto da obbligarci ad accendere la torcia del cellulare per tornare al villaggio in cerca di un posticino dove cenare.
Ci fermiamo in un ristorante dall’atmosfera calda e famigliare, dove una anziana cameriera ci fa accomodare in un tavolino vicino alle poche lampadine accese. Nessuno parla inglese ma tutti intorno a noi ci osservano incuriositi aspettando di sapere i nostri ordini.
Il menù è praticamente illeggibile da quanto scolorito, così, dalle poche parole tradotte in inglese, ordiniamo la nostra cena, un mix di riso bianco, patate tagliate alla julienne al profumo di aglio e carne in salsa di soia, accompagnate da una brocca di acqua calda da bere. Provo a chiedere una lattina di birra e mi viene indicato il bagno. Provo a chiedere del riso cotto nel bambù, e mi arriva un piatto di riso con bambù e funghi. Smetto di chiedere e mi guardo attorno, il buio della notte è interrotto solo da qualche lanterna e, dietro di noi, un gruppo di cinesi cena allegro con un piatto condiviso di cavallette fritte.
Ed è stato esattamente in questo momento, esattamente in questo luogo, che il nostro viaggio ci ha regalato uno di quei momenti indelebile, uno di quei momenti che sei in grado di accogliere solo quando smetti di porti inutili domande accettando il dove ti trovi e permettendo a ciò che ti circonda di avvicinarsi a te.
Prima di alzarci da tavola, il padrone del ristorante si avvicina a Lele invitandolo a provare della grappa di riso per poi accompagnarci a sedere al tavolo con la sua famiglia. Lì un Hot-Pot (pentolone di brodo) da condividere con pezzi di carne e verdure da bollire, una delle cene più belle che mi possa ricordare, dove la comunicazione era scandita da gesti lenti, smorfie divertite nel leggere il traduttore, brindisi ospitali e rintocchi di bacchette, il tutto al lume di calde lampadine nel mezzo del nulla.
Torniamo a dormire nel nostro hotel dove l’unico suono è lo scricchiolare del legno sotto i nostri passi.
Inizia a piovere e l’odore di erba bagnata entra dalle nostre finestre mischiandosi al profumo di legno e di resina della nostra stanza.
Buona notte Longji
Abbiamo alloggiato presso Longji One Art Hotel, una boutique dai dettagli ricercati che rendono ogni angolo una delizia per gli occhi.
Il pedaggio per entrare ai terrazzamenti è di 100 CYN (circa 13 euro) ed è valido per due giorni.
Abbiamo raggiunto i terrazzamenti di riso dall’aeroporto di Guilin accordandoci direttamente con l’hotel. La macchina privata è stata il mezzo più veloce e sicuro per raggiungere questa meta, ma certo non la più economica (circa 50 euro).
E’ possibile prendere un pulman dalla stazione di Guilin (circa 10 euro) o partecipare ad una visita di gruppo in giornata organizzata dagli hotel in città (circa 70-80 euro).
Il mio consiglio è di restare a dormire almeno una notte per poter sperimentare un’avventura fuori dal tempo e per potervi riposare dopo le lunghe ore di strada.
Un ringraziamento speciale a Gabriele, mio compagno di vita e di avventure, che pazientemente mi ha seguita ed immortalata in questo viaggio.
Una psicologa con la valigia sempre in mano.
Benvenuti nel blog di Psicologia del viaggio.
Una psicologa con la valigia sempre in mano.
Benvenuti nel blog di Psicologia del viaggio.
© 2017 - Travelpsych. Tutti i diritti riservati.travelpsych.it - chiara@travelpsych.itPrivacy Policy - Cookie Policy
Design by A Digital Else.