Scaldo l’acqua per un tè e tra le mani mi ritrovo il mix di spezie berbere comprato a Marrakech. Prendo la tazza fumante in mano, i cristalli di zucchero si sciolgono e un aroma di menta invade la stanza. Mi ritorna in mente il viaggio in Marocco, da nord a sud in treno assieme a mia cugina, le chiacchierate sui tetti dei riad, i chili di cous cous e le passeggiate tra souk e giardini. E poi il caos convulso nelle medine, i commenti troppo espliciti giunti alle nostre orecchie e lo scrupolo nel vestirsi o nel parlare per non venire fraintese.
Mi torna in mente tutto. E sospiro.
Il Marocco è un ponte tra Africa ed Europa, un’intrigante fusione di città cosmopolite e villaggi sospesi nel tempo, di panorami desertici e altopiani rigogliosi, una terra che seduce con le sue atmosfere esotiche intrise di profumo di Argan. E’ un paese dove tradizione e modernità si incontrano, si scontrano e talvolta, non sempre, abbracciano. Per le strade puoi trovare carri trainati dai muli come infrastrutture all’avanguardia, case decadenti e riad raffinati, gente locale in caftano e turisti internazionali con abiti alla moda.
Il Marocco è anche uno di quei luoghi nel mondo il cui fascino esotico è annebbiato da pregiudizi e stereotipi che, volente o nolente, ti entrano in testa senza bussare, conditi di quella paura verso ciò che è “diverso e lontano” che ti rende difficile ragionare ed influenza il modo di guardare a questo paese. Né tutto nero, né tutto bianco è il Marocco, è come un mosaico di tasselli colorati, imperfetti e persino brutti, se presi uno per uno, ma che, visti nell’insieme, rendono quel quadro intrigante.
L’entusiasmo iniziale mio e di Sara è stato pian piano smorzato dalle frammentarie notizie in tv, dalla viva apprensione delle nostre famiglie nel saperci da sole in un paese islamico, dagli avvertimenti di altri turisti incontrati nei riad che ci mettevano in guardia perché eravamo “alte e bionde” e “in questi paesi” eravamo “merce rara”, e, infine, dai pregiudizi figli di tutte queste circostanze.
Una preoccupazione crescente che ci ha contagiate il primo giorno a Fez, dove la complessità urbanistica della sua Medina ci trasmetteva più claustrofobia che fascino. Ogni sguardo e parola che ci arrivava era letta maliziosamente. E la forte penetrazione della religione nei costumi e nel fare quotidiano ci ha creato quel senso di disagio dovuto al sentirci fuori posto, anche solo nel mostrare un lembo di pelle di troppo – del braccio, si intende.
Ci siamo così ritrovate il tardo pomeriggio sedute in un bar a bere una spremuta d’arancia, a chiederci, mentre guardavamo la strada, “sul come” stavamo osservando quella città.
Chi non capisce uno sguardo, non capirà nemmeno una lunga spiegazione – Proverbio arabo
Ci siamo rese conto che ci stavamo muovendo con gli occhi aperti, certo, ma con la mente spenta. Perché appena abbiamo avuto il coraggio di accenderla ci siamo catapultate in un Marocco diverso, fatto di bianco, nero, grigio e colori arcobaleno.
Di parole masticate con tono malizioso ne abbiamo sentite tante, come quel “Bella Italia come stai” che ci tormentava ovunque andassimo.
Di sguardi giudicanti ne siamo state sommerse, noi come quella mamma occidentale che teneva stretto un cappello sul sedere perchè ignorava che l’intimo trasparisse sotto il vestito mentre con l’altra mano portava il passeggino.
E poi le indicazioni per raggiungere qualche luogo che puntualmente si trasformavano nel personaggio di turno che insisteva per accompagnarci nel negozio di spezie del cugino, nella bottega dell’amico, nell’angolo nascosto dove non sai dove sei, per poi girarti e ritrovarti qualcuno a venderti qualcosa, qualsiasi cosa.
C’è questo lato del Marocco, un paese apparentemente sempre in cerca di profitto, agguerrito ed esperto nel trattare con il turista per mezzo di quelle “trappole” che stancano e sfiniscono, ti disorientano e ti obbligano a domandarti in quale modo tu debba comportarti.
E in questo momento di sconforto e di sfiducia, a Fez, incontriamo Mustafà, un erborista conosciuto la mattina che, vedendoci visibilmente esauste e sfiduciate, si è offerto di accompagnarci al riad per farci sentire sicure e, d’istinto, questa volta, ci siamo fidate.
Non so esattamente il motivo, anche perchè, sulla strada verso il riad, aveva iniziato pure lui ad essere insistente per farci conoscere la sua famiglia e fino all’ultimo eravamo restie nell’accettare. Siamo comunque arrivate al suo portone, una vocina nella mia testa ripeteva “ma sei sicura?” mentre il cuore batteva forte, e, all’improvviso due codini sono sbucati dallo stipite della porta. Era Zaria, 2 anni, in attesa di suo papà. E poi si sono avvicinati Mohammed e Mustafà II, di 4 e 8 anni, con un piatto di dolci in mano. Ci siamo ritrovate così a bere un tè e a mangiare soffici torte e mandorle caramellate con una famiglia marocchina, nella loro angusta casa, il cui unico intento era quello di mostrarci con devozione quanto l’ospitalità in Marocco fosse importante. Era come una boccata di ossigeno, quella sensazione in cui, all’improvviso, i polmoni si espandono, si riempiono e ti senti rinvigorito. Ecco, Mustafà è stato il nostro ossigeno in quella convulsa giornata e ci ha svelato l’altro lato del Marocco che ancora non conoscevamo.
“Qui sarete sempre benvenute, l’ospitalità è sacra in Marocco” – Moustafa
Come non pensare a Youssef, il nostro instancabile autista, che lungo la strada per Chefchaouen ci ha spiegato tradizioni, insegnato parole in arabo e, soprattutto, ci ha assistito in un bar per “soli uomini” per farci sorseggiare con calma un caffè occupandosi di ordinarlo per noi. Noi, con i nostri capelli biondi e i lunghi vestiti colorati, sedute a guardare quel via vai di motorini e macchine circondate da uomini coperti da abiti scuri, senza provare disagio.
Quanti “la la la” (no no no) ci siamo sentite urlare addosso appena alzavamo la macchina fotografica e quanti invece con un sorriso hanno annuito per regalarci tanti quadri da appendere.
E a Casablanca, dove un tassista ha bloccato un intero viale di macchine per farci attraversare in sicurezza, scoppiando tutti e tre a ridere per il nostro timore. E il negoziante a Marrakech che ci ha regalato un rossetto artigianale dopo avergli comprato le spezie, come se noi, incapaci a contrattare, avessimo speso semplicemente più del dovuto e volesse “ripagarci”.
Attraversando il Marocco in treno da nord a sud, abbiamo osservato con meraviglia il paesaggio mutare e le abitudini delle persone divenire ora più flessibili e tolleranti, ora più integraliste e severe.
Abbiamo iniziato ad apprezzare con pura gioia ogni tazza di tè caldo offertaci ovunque andassimo, spesso senza un motivo apparente. Ci siamo godute altrettanto il cous cous tipico, immerse nei profumi dei fiori dei giardini e delle foglie di menta usate per coprire il tanfo delle concerie.
Le Medine si sono trasformate in caotici e travolgenti dedali in cui perderci, tra l’eccitazione della scoperta e la paura di cadere sotto lo sguardo sbagliato o di accettare un aiuto interessato.
E la religione, tanto rigorosa quanto “pittoresca” nel modo in cui permea la vita quotidiana e che, pur estromettendoci da molte moschee, pur obbligandoci ad un vestiario largo e coprente nonostante il caldo torrido, pur facendoci sentire in colpa nel bere un po’ d’acqua durante il Ramadan, alla fine, da osservatrici esterne, ci ha affascinate.
In cima al riad come ai piedi della grande Moschea di Hassan II, la sera ci trovavamo puntualmente ad ascoltare, rapite, le voci dei muezzin innalzarsi e disperdersi nell’aere col loro cantare. E l’atmosfera si faceva surreale, tanto da farci sentire in un altro mondo, un’altra epoca, distante eoni dal nostro approccio razionale e metodico alla vita.
E’ come se il viaggio in Marocco mi avesse messo davanti ad uno specchio per affrontare le mie paure, acuite certamente da preconcetti su ciò che da lontano appare “diverso”, ma al contempo motivate e giustificate dalla consapevolezza di come quel “diverso” possa essere anche estraneo e difficile da comprendere.
E’ stato un viaggio faticoso, fisicamente e mentalmente, che mi ha lasciato tanto, tramortendomi ad ogni passo, ad ogni parola scambiata, ad ogni sguardo incrociato.
Il Marocco è stato come immergermi in un avvincente libro, un “C’era una volta…” pieno di personaggi misteriosi, imprese rischiose e ostacoli da superare con fatica allo scopo di trovare il “tesoro”.
Ogni capitolo era una città nuova, avvolta nel suo esotico manto di bellezza e contrasti, di oro e di fango, di stupore e di orrore, in un percorso emozionante e formativo che ci ha portate, un passo alla volta, al climax, al finale, lieto e amaro, dolce e triste, buono e cattivo.
Il Marocco è faticoso, caotico, sporco, colorato, intrigante, rumoroso, pacifico, ordinato, antico, moderno, terribile e meraviglioso.
Shukran (“grazie”) Marocco
Una psicologa con la valigia sempre in mano.
Benvenuti nel blog di Psicologia del viaggio.
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